Lieve è il dolore che parla. Il grande, è muto.

Seneca

Il dolore è parte naturale dello sport, in quanto, praticandolo, ci si spinge molto spesso vicino (se non oltre) ai limiti del corpo umano. Su queste pagine abbiamo già affrontato l’argomento in due articoli, il primo dedicato alla correlazione tra sport e sofferenza e il secondo alla capacità degli atleti di sopportarla.

In questo terzo articolo ci concentreremo invece sulla gestione del dolore, imparando a riconoscerlo e a capire quando soffrire “fa parte del gioco” e quando invece è consigliabile fermarsi per rivolgersi a uno specialista.

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Il dolore è inevitabile, ma la sofferenza è facoltativa

Anonimo

In un articolo di qualche settimana fa abbiamo parlato della differenza tra fatica e dolore. La prima è qualcosa che è intrinseca nel concetto di sport: senza sudore non ci sono risultati (No pain, no gain dicono gli americani) e per raggiungere il successo bisogna obbligatoriamente saper superare gli acciacchi e la stanchezza. Il dolore è invece una sensazione a cui bisogna prestare particolare attenzione, perché è un segnale del nostro corpo che qualcosa non funziona come dovrebbe.

In presenza del dolore, la ragione consiglierebbe di fermarsi e valutare l’entità del possibile danno, per evitare di andare incontro a problemi più gravi. Gli atleti però sono fisiologicamente più preparati a resistervi e spesso scelgono di ignorarlo per non interrompere la prestazione. Ma non tutti ci riescono allo stesso modo… perché?

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Ciò che non ti uccide, ti rende più forte

Friedrich Nietzsche

Lo sport e il movimento fisico possono aiutare le persone a vivere una vita più sana, oltre a permettere lo sviluppo della conoscenza del proprio corpo, la realizzazione di sé, l’apprendimento di valori come il coraggio, l’equità, la disciplina, il rispetto per gli altri, l’amicizia. Insomma, un sacco di belle cose.

Ma non è tutto rose e fiori e dove c’è sport c’è spesso anche una buona dose di sofferenza. Non solo in quelle discipline in cui il dolore è previsto di default, come il pugilato o le arti marziali, ma anche negli sport senza contatto. Uno scontro di gioco con un avversario, una palla che colpisce il volto di un atleta, un muscolo sottoposto a uno sforzo eccessivo, un infortunio a un’articolazione: sono tutti esempi di eventi dolorosi, più o meno gravi, che chiunque abbia fatto sport ha dovuto prima o poi affrontare. Continua a leggere

“Quando sopraggiunge la sventura, il samurai deve rallegrarsene e andare avanti con coraggio. Un’attitudine simile differisce radicalmente dalla rassegnazione. Questo è ciò che afferma il detto: Quando le acque salgono, la barca fa altrettanto”

Yamamoto Tsunetomo

Nel vocabolario italiano il termine resilienza (che viene dal latino resalio, iterativo di salio e traducibile con rimontare o risalire) è associato alla capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. Nell’Hagakure, il libro che racchiude la saggezza e lo spirito dei samurai giapponesi, le persone resilienti sono invece paragonate a delle barche: è solo quando le acque si fanno agitate che si vede la differenza tra chi è in grado di continuare a navigare e chi invece affonda miseramente. Continua a leggere

“Come si fa a mangiare un elefante intero? Lo si mangia un pezzetto alla volta.

Antico proverbio africano

Il concetto di resilienza ha due componenti strettamente connesse tra di loro: una coinvolge la capacità di superare la fatica e i disagi fisici, l’altra la capacità di resistere allo stress psicologico e di sopportare contrattempi e fallimenti. Alla base di entrambe ci sono positività, energia, autodisciplina, tenacia, flessibilità e anche creatività, perché saper reagire alle situazioni impreviste può richiedere di dover affrontare gli eventi scegliendo una prospettiva differente rispetto a quella più immediata. La radice però è unica: l’attivazione della capacità di ‘tenere duro’ viene sempre e soltanto dalla nostra mente.

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