Mens sana in corpore NON sano: quando lo sport è sofferenza
“Ciò che non ti uccide, ti rende più forte”
Friedrich Nietzsche
Lo sport e il movimento fisico possono aiutare le persone a vivere una vita più sana, oltre a permettere lo sviluppo della conoscenza del proprio corpo, la realizzazione di sé, l’apprendimento di valori come il coraggio, l’equità, la disciplina, il rispetto per gli altri, l’amicizia. Insomma, un sacco di belle cose.
Ma non è tutto rose e fiori e dove c’è sport c’è spesso anche una buona dose di sofferenza. Non solo in quelle discipline in cui il dolore è previsto di default, come il pugilato o le arti marziali, ma anche negli sport senza contatto. Uno scontro di gioco con un avversario, una palla che colpisce il volto di un atleta, un muscolo sottoposto a uno sforzo eccessivo, un infortunio a un’articolazione: sono tutti esempi di eventi dolorosi, più o meno gravi, che chiunque abbia fatto sport ha dovuto prima o poi affrontare.
Fare sport non può essere però più importante della salute. È vero che un certo livello di sofferenza è parte integrante dell’attività sportiva, soprattutto ad alti livelli, ma va gestita correttamente per evitare che possa originare dei problemi (anche gravi).
Per cominciare, credo sia utile distinguere tra dolore e fatica. Questa differenza non rappresenta solo un carattere più fisico del dolore e uno più mentale della fatica, ma è legata alle rispettive conseguenze. Entrambe le sensazioni sono spesso interpretate come indicazione che l’attività fisica dovrebbe essere ridotta o evitata, a causa di danni ai tessuti o alle articolazioni (dolore) o di un eccessivo allenamento (fatica). Ma nonostante la loro comune origine, andrebbero sempre trattate come entità distinte.
Gli allenatori a volte considerano le sensazioni di dolore e fatica come indicatori di debolezza fisica e/o psicologica, che dovrebbero essere ignorati per rafforzare lo spirito. Questo può portare a uno stato di conflitto con gli atleti o costringerli a ignorare segnali che possono portare a conseguenze dannose per il fisico.
Il dolore e la fatica vanno invece sempre ascoltati, perché forniscono informazioni preziose sul corpo e sulle sue prestazioni. Per massimizzarne l’utilità è importante però capire quali tipi di segnali devono portare a uno stop e quali invece possono essere superati.
Accettare che la fatica faccia parte dell’allenamento e della competizione è essenziale. Non si può fare sport ad alti livelli e pensare di non essere mai stanchi e indolenziti: il comfort e l’eccellenza delle prestazioni si escludono a vicenda. Gli effetti della fatica possono anche essere fastidiosi: pensate per esempio ai muscoli doloranti per l’acido lattico in conseguenza di un’attività particolarmente intensa dopo un periodo di stop.
D’altra parte, se vedete la fatica come qualcosa di naturale e necessario e lo interpretate come un segno che state lavorando sodo per raggiungere i vostri obiettivi, allora la sensazione di stanchezza può essere una valida alleata. Molti atleti spesso riferiscono di essere soddisfatti dopo aver perseverato in una dura sessione di allenamento o di gara.
Pensate ai maratoneti o chi pratica l’ultratrail: questi sportivi corrono per distanze e durate estenuanti, spesso in condizioni quasi proibitive. Per loro la fatica e (entro certi limiti) la sofferenza sono il fulcro dell’esperienza sportiva e da esse traggono forza per proseguire nella pratica.
Stanchezza, fastidi e acciacchi sono elementi che sono presenti nella vita di ogni atleta a ogni livello e per avere successo bisogna saperli superare. Il dolore è invece qualcosa che andrebbe il più possibile evitato, perché è un segnale del nostro corpo che qualcosa non funziona come dovrebbe. Ma per fare sport, a volte è necessario ignorarlo facendo vincere la mente sul corpo.
Gli atleti di resistenza amano la sfida di spingere attraverso la sofferenza, mentre i pugili si rialzano per continuare a combattere anche dopo essere stati abbattuti da un pugno dell’avversario. Questo come detto fa parte delle caratteristiche dei rispettivi sport e chi decide di cimentarvisi lo fa conoscendo gli ostacoli a cui andrà incontro. Ma come fanno alcuni atleti a sopportare gli effetti dolorosi di un trauma, a volte anche grave?
In seguito a una lesione, come una distorsione alla caviglia, i recettori del dolore vengono prima stimolati dallo stress ‘meccanico’ che grava sui tessuti (muscoli e legamenti). Il versamento infiammatorio pervade in breve tempo l’articolazione portando alla sensibilizzazione della zona. In alcuni casi, il dolore diventa subito insopportabile. In altri, la sensibilità al movimento e alla pressione aumenta progressivamente nelle ore successive e il tempo che intercorre tra il passaggio dal trauma originale al massimo stato di sensibilizzazione può fornire agli atleti una finestra di opportunità per scrollarsi di dosso il dolore e continuare a gareggiare.
Quando si è totalmente concentrati sul proprio avversario o consumati dall’agonismo di una gara, l’adrenalina può agire per inibire la trasmissione o limitare la consapevolezza del segnale del dolore. Abbiamo tutti letto o sentito storie di sportivi che hanno continuato nonostante un infortunio che (teoricamente) avrebbe dovuto farli fermare: un pugile con la mano rotta, un giocatore di rugby con i legamenti strappati, un corridore con una lesione muscolare, etc.
Durante la competizione, la mente può parzialmente chiudere la porta al dolore e l’atleta resiliente può essere in grado di continuare nonostante l’infortunio. Questo significa che dovreste giocare sopra al dolore e cercare di ignorare una lesione? Tendenzialmente no, perché la sensibilizzazione acuta è un processo che il corpo mette in atto per incoraggiarvi a smettere di usare la parte lesionato ed evitare ulteriori danni. Scegliere di ignorare il dolore è una decisione personale, che dipende da numerosi fattori che analizzeremo in un successivo articolo.
A volte le persone possono superare il dolore acuto e continuare a gareggiare, ma questo non lo rende necessariamente una decisione saggia.
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