La regola delle 10.000 ore e il tiro di Ray Allen

“Non ho mai dubitato delle mie capacità, perché ho lavorato tanto per costruirle. L’etica del lavoro cancella la paura: se metti impegno nel tuo lavoro, perché mai dovresti avere paura? Dovresti conoscere bene cosa sei in grado di fare e cosa no”.

Michael Jordan

Spesso siamo portati a pensare che le prestazioni di eccellenza siano collegate al possesso di abilità innate. Al talento, concetto che abbiamo affrontato qualche settimana fa in un altro articolo. Ma non è così: credere che il nostro destino sia determinato esclusivamente dai geni o dalle predisposizioni naturali non fa altro che condurre alla passività e alla rassegnazione.

Esistono milioni di individui che ritengono di essere destinati alla mediocrità o alla sconfitta da una forza superiore sulla quale credono di non avere alcun controllo. Queste persone affidano le poche speranze di successo soltanto ad un fantomatico colpo di fortuna, che però non arriva quasi mai. Purtroppo sono loro stessi a trasformare tali credenze in realtà, perché il subconscio creerà un circolo vizioso di negatività che le porterà ad attribuire al destino e alla cattiva sorte ogni risultato non in linea con le aspettative.

Il potere del condizionamento mentale è talmente forte che, molto spesso, siamo ciò che crediamo di essere. Vi faccio un esempio. Se un tennista è convinto di non essere portato per il gioco a rete, sta implicitamente affermando tre cose. La prima è che ogni volta che si avvicinerà nei pressi della rete verrà inesorabilmente infilato dal passante dell’avversario. La seconda è che non sarà colpa sua, perché non ha ricevuto nessun dono divino in questa specialità. La terza è che può evitare di allenarsi nei colpi al volo, tanto non potrà mai fare nulla per colmare questa lacuna.

Ma la realtà non è questa. Pensate a tutti i migliori tennisti in questa specialità: McEnroe, Edberg, Becker, Federer. Credete davvero che una mattina si siano svegliati e siano magicamente diventati dei fenomeni nel gioco a rete? Oppure è più probabile che si siano allenati ore ed ore per provare e riprovare volée di dritto e di rovescio fino allo sfinimento?

La regola delle diecimila ore è stata elaborata a seguito di un esperimento compiuto nel 1993 dello psicologo K.A. Ericsson presso l’Accademia della Musica di Berlino. Analizzando i violinisti del conservatorio, Ericsson divise gli studenti in tre gruppi in base al loro livello di esecuzione: quelli eccellenti, quelli bravi e quelli solamente discreti. Normalmente questo quadro sarebbe stato interpretato in chiave delle loro qualità innate: i primi erano dei veri talenti, i secondi un po’ meno, mentre gli ultimi sarebbero stati definiti come quelli meno portati per la musica.

Lo psicologo americano procedette invece in senso inverso e ricostruì le ore di esercizio praticate dagli studenti nel corso della loro vita. Venne fuori che nessuno tra i violinisti del primo gruppo aveva alle spalle meno di diecimila ore di esercizio, quelli del gruppo intermedio stavano tra le sette e le ottomila ore, mentre quelli del terzo gruppo erano tutti sotto le cinquemila ore.

Da allora sono stati fatti molti altri studi di questo tipo e i risultati sono stati sempre gli stessi: ad un maggiore allenamento corrispondono migliori risultati, a prescindere dalla dotazione di partenza.

Questo non accade solo per la musica. Come racconta Malcom Gladwell nel suo libro Fuoriclasse: Storia naturale del successo, quando era al college Bill Gates ha investito oltre diecimila ore nella programmazione software prima sfondare con Windows e la Microsoft. Altrettante ne hanno spese i Beatles a suonare nei pub di Liverpool e Amburgo prima di diventare dei fenomeni planetari.

Nello sport, gli atleti di maggior successo non sono per forza di cose i più forti, i più veloci o i più grossi, bensì quelli che sono stati capaci di produrre il massimo dell’impegno. Larry Bird, una delle leggende del basket americano, era un giocatore mediamente lento e che non saltava un granché, perlomeno per i parametri dell’NBA. Ma è entrato nella storia come uno dei più grandi di sempre, perché si allenava più duramente degli altri e ha ricavato il massimo dalle sue limitate capacità atletiche, compensando con la sua straordinaria determinazione il gap in termini di elevazione e velocità rispetto agli avversari.

L’allenamento ha anche un altro scopo, più specifico. Ripetendo per molte volte lo stesso gesto tecnico, questo diventa parte della nostra memoria neuromuscolare e diviene quello che comunemente chiamiamo ‘istinto’. Per cui, la prossima volta che ci troveremo in quella stessa situazione che abbiamo ripetuto più e più volte durante gli allenamenti, non avremo bisogno di pensare: sarà il nostro corpo a reagire automaticamente nel modo corretto

Se chiedessimo ad un qualunque grande sportivo se ricorda a cosa ha pensato prima di realizzare quel suo famoso gol, canestro o schiacciata, con ogni probabilità ci risponderebbe: “A niente”. In quei pochi decimi o centesimi di secondo che separano un’azione sportiva dal successo o dal fallimento, non c’è materialmente il tempo di pensare a niente. Il corpo semplicemente reagisce, sfruttando la memoria di quello che ha già fatto decine, centinaia, migliaia di volte. È quello che intendiamo con la frase “Potrebbe segnare quel tiro anche nel sonno”.

Per Ray Allen, ex stella della NBA, la vita era fatta fondamentalmente di partite ed allenamenti. Ogni momento libero veniva sfruttato per allenare il fisico o la tecnica, e nei giorni delle partite era solito entrare in campo almeno tre ore prima dell’inizio della gara, quando ancora le luci del palazzetto dovevano essere accese, gli hot-dog dei bar erano ancora da scongelare e qualche suo compagno doveva ancora partire da casa. Infilata la divisa, Ray entrava in campo e iniziava a tirare. A tirare, tirare e ancora tirare. Questo a ogni partita di ogni stagione della sua carriera.

Andiamo al 18 Giugno 2013, Finale NBA tra Miami Heat e San Antonio Spurs. Allen gioca per gli Heat, che sono in svantaggio 2-3 nella serie e nella decisiva (in caso di sconfitta) Gara 6 sono sotto di tre punti a pochi secondi dalla fine. Palla nelle mani di LeBron James che tira per il pareggio. Sbaglia, rimbalzo in attacco di Chris Bosh che, con la coda dell’occhio, vede Allen indietreggiare rapidamente in angolo. A pochi secondi dalla sirena finale Ray riceve palla e, senza mai guardare in terra, posiziona i piedi esattamente dietro l’arco dei tre punti. Tiro, canestro del pareggio e la gara finisce ai supplementari. Miami vincerà la partita e due giorni dopo trionferà anche in Gara 7, aggiudicandosi il titolo NBA.

Quando un giocatore fa una cosa di questo genere, in un momento di così cruciale importanza, si può pensare che si frutto del suo talento o del suo innato sangue freddo. Vi racconto però la spiegazione di Erik Spoelstra, suo coach ai tempi di quella partita

“Un giorno, alla fine di un allenamento della stagione regolare, vidi Allen fermarsi per svolgere un esercizio che non avevo programmato. Al fischio di un assistente, Ray partiva da sotto canestro, correva all’indietro verso l’angolo e posizionava i suoi piedi nel piccolo spazio che sta tra l’arco dei tre punti e la linea laterale, facendo poi partire il tiro in maniera incredibilmente veloce. Tutto in un solo movimento e senza mai guardare a terra, ripetendo lo stesso esercizio decine e decine di volte”.

Vi ricorda qualcosa? “Nessuno può segnare questo tiro, se non si chiama Ray Allen” afferma Flavio Tranquillo nella sua telecronaca. Non per una questione di semplice talento o predisposizione, ma per tutto il lavoro che c’era dietro a quel tiro. Nel suo discorso durante la cerimonia ufficiale di induzione alla Hall of Fame della NBA, Allen celebrò la sua carriera con queste parole:

Non credo nel talento. Sono qui perché ho lavorato duramente tutta la mia vita, se non lo avessi fatto nessuno in questa stanza conoscerebbe il mio nome

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