Imparare dai campioni. I neuroni specchio e la teoria del modellamento di Albert Bandura

“La via per imparare è lunga se si procede per regole, breve e efficace se si procede per esempi.”

Seneca

Lo psicologo canadese Albert Bandura è il padre della teoria dell’apprendimento sociale. Secondo tale teoria, l’apprendimento degli individui non passa esclusivamente attraverso l’esperienza diretta, ma anche attraverso stimolazioni indirette sviluppate dall’osservazione di altre persone. Bandura negli anni ’60 ha coniato il termine Modelling (modellamento), dimostrando che l’acquisizione delle informazioni provenienti dall’esterno può incidere sulla capacità di riprodurre lo stesso comportamento. Tale teoria é incentrata sul meccanismo di identificazione che lega il discepolo osservatore al modello osservato. 

Le teorie di Bandura si collegano a un esperimento effettuato una ventina di anni dopo, quando un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma iniziò a dedicarsi allo studio della corteccia premotoria, la parte del cervello deputata alla pianificazione dei movimenti. Gli studiosi avevano collocato degli elettrodi al cervello di alcune scimmie, scoprendo che lo stesso gruppo di neuroni si attivava quando una scimmia faceva un certo movimento, per esempio portare il cibo alla bocca, e quando le altre scimmie ne osservavano l’azione. Quel particolare tipo di unità cellulari è stato definito neuroni specchio e sembrano essere deputati a codificare un archivio completo di tutti i movimenti muscolari che impariamo ad eseguire nel corso della nostra vita, dal primo sorriso fino al salto mortale all’indietro (per chi è in grado di farlo).

Ulteriori studi sugli esseri umani non solo hanno confermato questa teoria, ma hanno anche portato a concludere che tali neuroni si attivano anche nei portatori di amputazioni (nell’osservazione di movimenti di altre persone dei propri arti mancanti), nonché in soggetti ipovedenti o ciechi (che reagiscono al rumore di un’attività come se stessero compiendo l’azione stessa). L’idea di base è che immaginando le prestazioni di un’abilità si attivino quasi esattamente gli stessi percorsi neurali dell’effettiva esecuzione, in modo che si possa migliorare anche grazie a qualcosa di puramente visivo. 

Sono state proposte diverse funzioni per i neuroni specchio. La prima è l’apprendimento per imitazione. I bambini iniziano ad imitare il movimento non appena ne sono capaci. Ad esempio, i bambini con pochi giorni di vita già sorridono e tirano fuori la lingua, se vedono i genitori fare la stessa cosa. Imparano i primi versi, le espressioni facciali e altri spunti del linguaggio del corpo attraverso un processo simile: i nuovi elementi che introducono progressivamente nel loro bagaglio di conoscenze non sono frutto di una magica ispirazione, ma dell’osservazione di chi gli sta intorno. Questo processo non funziona soltanto per i bambini, anzi. Si potrebbe quasi dire che, nel corso della nostra vita, non inventiamo una singola cosa che sia completamente nuova, ma che non facciamo altro che copiare i comportamenti di altri, al massimo fornendone una nostra personale rivisitazione.

Un’altra funzione utile per i neuroni specchio è la possibilità di prevedere le conseguenze di un’azione prima di eseguirla. Se immaginate un movimento prima che questo avvenga, potete eseguire un piccolo filmato virtuale nella vostra mente, valutare il risultato previsto e poi cambiare il vostro piano di conseguenza. Lo facciamo continuamente, molto spesso senza rendercene nemmeno conto.

Un’ultima interessante possibilità è che possiamo usare i nostri neuroni specchio come un modo per sentire ciò che gli altri stanno provando. Per esempio, se vedete qualcuno piangere i neuroni che controllano lo schema emotivo del pianto si accenderanno e, in un certo senso, sentirete quello che l’altra persona sta provando. Questa è la base dell’empatia e spiega una quantità incredibile di comportamenti umani, come l’eccitazione durante gli eventi sportivi a cui ci capita di assistere.

Torniamo alla prima funzione. A scanso di equivoci, se la domanda che vi viene in mente è: É possibile imparare uno sport semplicemente guardandolo alla televisione? la risposta è no. Anche tralasciando il fatto che per compiere un gesto atletico è necessaria una preparazione fisica corrispondente alla difficoltà del gesto stesso, alcuni successivi studi hanno dimostrato che i neuroni specchio funzionano soltanto in determinate condizioni.

In un esperimento del 2004 condotto dal neuroscienziato inglese Daniel Glaser, ad alcuni ballerini della Royal Ballet di Londra e ad alcuni esperti di capoeira è stato chiesto di guardare brevi video di passi di classica mischiati con alcune mosse dell’arte marziale brasiliana. I partecipanti all’esperimento erano all’interno di uno scanner per la risonanza magnetica, in modo da poterne registrare l’attivazione delle diverse aree del cervello. Glaser scoprì che i partecipanti avevano un’attività neurale nella corteccia prefrontale soltanto quando guardavano in video la loro stessa disciplina. In altre parole, quando i ballerini guardavano gli altri ballerini i loro neuroni a specchio si illuminavano, mentre quando guardavano i movimenti dell’arte marziale brasiliana questo non succedeva. Per gli esperti di capoeira era vero l’esatto contrario.

Questo vi suggerisce che guardare un campione che pratica uno sport vi aiuterà solo se avete già un certo grado di esperienza riguardo a quella disciplina. Non ho mai fatto un salto mortale all’indietro alla trave (o da qualunque altra parte), per cui non avrei maggiori possibilità di evitare di rompermi il collo nemmeno guardando dieci ore consecutive delle Olimpiadi di ginnastica. Questo perché nel mio cervello non esiste alcuna mappa motoria per quel tipo di attività, quindi non ci sono neuroni da ‘accendere’ quando guardo qualcun altro.

Mi piace però giocare a basket e ho quindi molti neuroni (o quantomeno lo spero) nella mia corteccia prefrontale che sanno come si fa un palleggio-arresto-e-tiro. Quando vedo LeBron James realizzare un canestro, questi neuroni registrano il risultato della sua azione e posso in qualche modo ‘sentire’ i suoi movimenti nel mio corpo. Riesco persino a capire, in un certo senso, come potrei utilizzare quelle informazioni per aumentare le mie probabilità di segnare il mio prossimo tiro al campetto. Se però vedo LeBron schiacciare saltando dalla linea del tiro libero non ho nessuna possibilità di replicare la stessa azione, perché le mie capacità atletiche sono troppo diverse e non sono in grado di costruire una relazione mentale con il suo gesto.

I neuroni specchio non possono quindi aiutarci a migliorare in uno sport solo guardando passivamente la TV, ma possono essere utili se vogliamo prendere a modello le capacità tecniche (e mentali) degli atleti di successo per plasmare il nostro percorso di crescita. Non si tratta infatti soltanto di ripetere un’azione o un gesto tecnico, ma anche di interiorizzare quello che c’è dietro in termini di dedizione al risultato e di etica del lavoro.

Kobe Bryant, il compianto fuoriclasse dei Los Angeles Lakers, è cresciuto idolatrando quello che, negli anni della sua adolescenza, era diventato la stella di riferimento della NBA, nonché il più forte giocatore nella storia del basket: Michael Jordan. Kobe ha studiato in modo maniacale i movimenti di MJ, arrivando a replicarli in modo praticamente perfetto e altrettanto efficace. Negli anni delle scuole medie (alcuni dei quali passati nel nostro paese) e del liceo, Kobe deve aver rotto un bel po’ di pulsanti di riavvolgimento sui suoi videoregistratori, mentre li premeva un numero imprecisato di volte per rivedere i nastri di Jordan che distruggeva gli avversari. Poi andava al campetto con il pallone e per ore, giorni, mesi, anni si è impegnato nel tentativo di replicare quanto aveva visto sullo schermo. Nel tempo, la tecnica di tiro di Bryant è diventata praticamente uguale a quello di Jordan. Ma non solo: Bryant penetrava a canestro come Jordan, schiacciava come Jordan, camminava come Jordan e, perfino nei festeggiamenti sul campo, sembrava davvero la fotocopia di Jordan. Guardare per credere.

I due nel tempo hanno sviluppato anche una grande amicizia, e lo stesso Jordan ha sempre riconosciuto Kobe come il suo vero erede sul campo da basket, sia per la qualità tecnica che per l’incredibile spirito competitivo. Non solo, ad una domanda di un giornalista che qualche anno fa gli chiese contro chi gli sarebbe piaciuto giocare in uno-contro-uno, Jordan rispose così.

“Avrei voluto sfidare molti grandi giocatori all’apice delle rispettive carriere: Jerry West, Elgin Baylor, LeBron James, Dwyane Wade, Carmelo Anthony.  Ma non credo che avrei perso contro nessuno… a parte Kobe Bryant, perché ha rubato tutte le mie mosse.

Michael Jordan

Come Bryant, moltissimi altri campioni dello sport hanno ammesso di essersi ispirati agli idoli della loro gioventù, studiandone i filmati con l’obiettivo di apprenderne i segreti. Non c’è niente di male: il mondo è pieno di sportivi e atleti incredibili da cui prendere spunto, esempi perfetti di quello che serve per realizzare gli obiettivi più ambiziosi. Ma i modelli a cui ispirarsi non esistono soltanto in televisione, possono anche essere i nostri avversari o i compagni di squadra.

Non abbiate vergogna di chiedere a qualcuno più bravo di voi: se siete di fronte ad un problema tecnico, guardate a chi quel problema lo ha superato. Chiedere aiuto ad un compagno non solo vi può portare a risolvere un problema, ma migliorerà anche il rapporto con la persona a cui vi siete rivolti, dimostrandogli che non avete vergogna nel riconoscergli una qualità tecnica superiore alla vostra… almeno per il momento.

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